'Mi hanno detto: perché non vieni a seguire la tre giorni di convegni e incontri degli Stati Generali del Jazz Italiano? Ho avuto un brivido. Perché in realtà il mondo del rock e del pop da cui io provengo soffre segretamente di un grave complesso di inferiorità nei confronti del jazz. Noi siamo troppo popolari, troppo commerciali per essere degni della nicchia... vedete che ognuno ha le proprie assurde paturnie.
Ebbene. Il bello è che qui, nella quattro giorni di Jazzocene, di tutto si è parlato anziché di senso di superiorità e tantomeno di nicchia. Tutt'altro: la parola d'ordine è stata apertura, la volontà di uscire sempre più allo scoperto. Paolo Fresu, il padrone di casa, è la rappresentazione vivente di quel jazz che nella nicchia proprio non vuol stare: smania, inventa, si inerpica su percorsi alternativi e imprevedibili.
Poi ho pensato, amaramente, che proprio il mondo del pop e del rock italiano in questi due penosi anni di pandemia è tra quelli che ha sofferto di più. Perché? Proprio perché non è stato capace di unitarietà, perché non è stato capace di abbandonare vecchi particolarismi e costituirsi in un corpo unico, o almeno, non lo ha pensato per tempo.
E allora è giusto affermare che il mondo del jazz sta dando l'esempio. Unire le forze, mettere assieme varie associazioni come ha fatto la Federazione Nazionale del Jazz Italiano significa prendersi delle responsabilità, concedere qualcosa agli altri, mediare, sedersi ai tavoli con le istituzioni. Fresu e la Federazione hanno compiuto il miracolo: tenere in piedi in due anni in cui crollava tutto il jazz in Italia, dandogli perlomeno voce, dignità, affermando la propria esistenza-resistenza.
RESPONSABILITA' è una parola chiave che è emersa più volte nel corso degli incontri. L'ha pronunciata ovviamente soprattutto Paolo Fresu: “Il jazz è una musica capace di adattarsi al presente, è contemporanea, è aperta, ha quindi una responsabilità civile, culturale e politica”.
Cosa è stato dunque Jazzocene? Il resoconto di ciò che ha significato fino ad oggi prendersi questa responsabilità. Lo ha detto Fresu: il tentativo di fotografare il jazz del presente dopo quattro anni di lavoro impegnativo con la Federazione nazionale del jazz e le sue varie associazioni. Associazioni che hanno dunque raccontato lo stato dell'arte: quella dei musicisti, dei festival, dei jazz club, dei fotografi, delle etichette indipendenti, del mondo della scuola.
Un'altra parola chiave è stata RINNOVAMENTO. Ci si è chiesto: come si fa a rinnovare la cultura attraverso il jazz? E nello stesso tempo: come si fa a rinnovare il pubblico del jazz? Urgenza evocata in diversi panel, compreso quello coordinato da Pierfrancesco Pacoda su “I luoghi e la produzione del jazz”. Beh, ovvio: si lavora sul futuro, ovvero sui bambini.
La prima giornata è quindi stata caratterizzata dal racconto, e dalla visione, dei bellissimi progetti dedicati dalla Federazione alla scuola, alla formazione. Ho studiato psicologia clinica dell'infanzia e dell'adolescenza e ascoltare i racconti di Catia Gori, presidente dell'Associazione “Il Jazz Va A Scuola”, visionare alcuni degli interventi realizzati con bambini in età prescolare, mi ha sinceramente emozionato. Catia ci ha incantato con il resoconto dei progetti che hanno già portato felicemente la musica jazz nei nidi e nelle scuole dell'infanzia. E' qui che si forma non solo la personalità musicale del bambino, ma l'intera personalità, gli schemi mentali grazie sui quali costruire qualcosa di importante che consenta al bambino-futuro adulto, di vivere in armonia con l'ambiente. Perché quei bambini che manipolano, sbattono, esplorano gli strumenti costruiti assieme agli operatori, quei bambini che improvvisano magnificamente e godono della libertà fornita dal jazz, quei bambini che si relazionano fisicamente con l'oggetto-musica e si riappropriano della propria fisicità e della propria armonia (in una modernità che invece tende a segregarli nella cultura del virtuale), sono i futuri adulti armonici, aperti e socializzanti.
Abbiamo ascoltato docenti/musicisti veramente appassionati come Ilaria Biagini e Massimo Nunzi che ci hanno spiegato come “i bambini che suonano da soli cinque mesi riescono a suonare il jazz meglio delle cosiddette musiche commerciali, anche se hanno solo sette anni”.
Per non parlare della scoperta dei concerti mattutini organizzati da Loredana Franza, manager di eventi in Svezia, dove la musica per i più piccoli oltre a far bene, fa anche business, con centinaia di bambini sotto i palchi dove si suona jazz: quei bambini felici e aperti sono gli adulti felici e aperti del futuro!
E poi, ancora nella prima mattinata dedicata alla scuola, abbiamo assistito al momento più poetico col maestro Franco Lorenzoni che, attraverso il racconto archetipico del mito, ci spiegato la funzione salvifica del ritmo e della musica nella nostra vita. Peraltro, parola di Lorenzoni, il maestro a scuola fa esattamente come il jazzista con la sua band: improvvisa con i bambini seguendo le loro improvvisazioni, gioca in un interplay, come nel jazz. E poi ha elencato le 10 ragioni per cui la scuola si deve aprire al jazz. Certamente perché la musica “per gli adolescenti è un modo per riconoscersi e per affrancarsi da un mondo vissuto come ostile, difficile” e soprattutto perché la musica è corporea, è “fiato, mani, presenza, e questo compensa il digitale imperante”.
Ecco altre due parole chiave: CORPOREITA' e VIRTUALITA'. Citate spesso in contrasto e altre volte in armonia. Il nuovo jazz deve passare anche attraverso il virtuale, perché se non vuole perdere il treno della contemporaneità è necessario che si aggiorni. Urgenza che è emersa in diversi incontri.
Da una parte quindi: digitalizzare, cristalllizzare la fisicità del jazz (i dischi, le copertine, le locandine) perché tutti ne possano fruire attraverso gli Archivi del jazz (come ci ha raccontato Francesco Martinelli del Centro nazionale di studi sul jazz Arrigo Polillo). Dall'altra parte far fluire il jazz nella sua incorporeità attraverso i nuovi mezzi del virtuale: non bisogna aver paura dell'immateriale, delle temibili visualizzazioni.
Sono state raccontate piattaforme di streaming musicale, come la francese Qobuz, che sono più attente alla qualità della musica, al suono e a ciò che sta attorno al suono, come il vecchio booklet che viene digitalizzato e diventa fruibile; piattaforme che trattano con occhio di riguardo gli artisti jazz.
E abbiamo anche scoperto che quelli dell'Associazione delle etichette indipendenti del jazz presieduta dal giovanissimo Federico Mansutti (il millennial della Federazione Nazionale del Jazz Italiano), hanno intenzione di traghettare la discografia jazz nel nuovo mondo. Mansutti è un giovane visionario che è riuscito a parlarci di NFT, cioè di opere non materiali, come una possibile nuova frontiera per il jazz; un ragazzo che vuole scardinare gli algoritmi dell'intelligenza artificiale per diffondere il jazz italiano sui nuovi media digitali, e convincere innanzitutto i jazzisti che è cosa buona e giusta stare su piattaforme come bandcamp e spotify, anzi è necessario, così come non è certo da escludere l'idea di avvalersi di nuove figure professionali come quelle social media manager.
Inoltre, nel panel condotto dal giornalista Damir Ivic, è emersa la necessità di aggiornare la mentalità di nuovi e più agèe musicisti jazz: far loro comprendere la dimensione del nuovo “do it yourself”, ovvero l'esigenza da parte del musicista jazz di curare tutta la propria produzione ed immagine: forse non sarà possibile convincere i musicisti jazz a farsi video autopromozionali su Tik Tok (dove, assieme al gaming, ormai viaggiano i più grandi investimenti musicali), ma qualcosa dovrà pur succedere perché il jazz salga sul carro delle nuove tecnologie. Abbiamo capito che le strategie di marketing del jazz italiano sono ancora troppo legate a vecchie dinamiche ma che qualcosa già accade nel momento in cui (come ci ha raccontato Ermanno Bosso di Cam Jazz) un maestro come Enrico Pierannunzi si preoccupa e chiede suggerimenti su cosa postare sui social in occasione dell'uscita del nuovo disco.
In questo continuo rimbalzo tra futuro e storia del jazz, abbiamo ascoltato il grande maestro Bruno Tommaso intervistato da Luigi Onori su “Insegnare il jazz e le musiche improvvisate”. Un gigante del jazz che in un periodo in cui non esisteva in Italia una didattica jazz istituzionale ha formato con passione tantissimi musicisti. Ancora “formazione” dunque, coniugata ad un'altra parola chiave, “passione”, perché come ha sottolineato Tommaso: “l'insegnamento non deve essere un lavoro di ripiego ma va fatto con dedizione”.
Non sono mancati ovviamente i rappresentanti delle istituzioni, incontri importantissimi, come quello sulla tax credit e sull'intermittenza lavorativa, migliorie che sono state definite un vero e proprio passaggio storico in Italia. C'è stato il saluto del sindaco di Bologna Matteo Lepore (“il jazz e la musica tutta, devono essere visti come elementi culturali, educativi, di sviluppo territoriale”), ma anche Annalisa Spadolini del MIUR che ha portato il saluto appassionato di Luigi Berlinguer, Paola Mencuccini (Mic), Alessandra Carbonari (membro della commissione cultura in parlamento), Anita Pisarro (del Ministero del Lavoro), Antonio Parente del Fus.
Inoltre, l’importante passaggio di consegne con l'annuncio della nuova Presidente della Federazione, Ada Montellanico, mentre a Fresu è stato chiesto di rimanere in veste di presidente onorario: “Ada sarà la nuova presidente della Federazione perché in questo cammino (che nasce da ben prima della nascita della stessa federazione) Ada è colei che c'è sempre stata dall'inizio e conosce tutte le curve strettissime in cui si potrebbe andare fuori strada”.
Un'entusiasta, vigorosissima Ada Montellanico che ha scherzato con la “psicopatologia” del musicista: “Trovarsi in un'associazione è un processo psicoterapeutico: in un momento di grande individualismo, stare in squadra è uno stare al mondo complesso. Per di più, stare in un'associazione composta da varie associazioni è un esercizio continuo, collettivo”. Di psicologia peraltro abbiamo sentito parlare anche Alessandro Fedrigo, segno che la psiche dei lavoratori del jazz è quantomeno complessa, ma la complessità sta a cuore al jazz. Il presidente dell'Associazione musicisti di jazz è stato autore in un esilarante racconto a fumetti in cui ha descritto il musicista jazz come un individuo perennemente perseguitato da acronimi (Siae, Fuss, Enpals), di cui uno in particolare: MFS, ovvero “Mi Fai Suonare?”; un'ossessione che lo porta dallo psicoterapeuta, il dottor MIDJ, il quale lo mette di fronte alle sue angosce: la paura di non riuscire a maturare mai una pensione, la paura di non riuscire a campare con il proprio lavoro.
Tra le varie urgenze messe sotto lo spotlight dalla Federazione quella dell’impatto green (con Silvano Falocco della Fondazione Ecosistemi) e quella del gender balance: “E' importante che ci sia una donna a guida della federazione – ha detto la Montellanico - la ritengo una cosa rivoluzionaria. Abbiamo una visione diversa che va espressa anche nella musica”.
Di genere si è parlato nel dettaglio nel panel con Martel Ollerenshaw (Arts & Parts) e Cecilia Sanchetti (musicista che ha creato un associazione sul gender balance, Jasmine) che ha portato dati ancora preoccupanti. Tra le evidenze il fatto che le strumentiste donne siano ancora pochissime, che interrompano la loro carriera musicale prestissimo, intorno ai 40-45 anni e che il 20% di esse non abbia mai partecipato ad un festival nella sua vita.
Moltissime però le note positive di Jazzocene. Un grande entusiasmo che sa di ripartenza soprattutto nelle parole del ministro Dario Franceschini, un ministro appassionato di jazz che ha svelato la sua esperienza da deejay di una piccola trasmissione jazz in una radio libera negli anni Settanta quando era ancora ragazzo. Franceschini si è detto molto ottimista sul futuro del jazz e della cultura tutta: d'accordo con una giornata dedicata al jazz nelle scuole e con l'istituzione di un premio del jazz italiano: “Credo che ci sarà un ritorno positivo ai beni immateriali. Arriveranno grandi risultati”.
Infine vorrei parlare di parole, scusate il gioco. Il funambolo della parola, si sa, a Jazzocene è stato il pirotecnico Alessandro Bergonzoni, jazzista della parola, ma anche il giornalista e narratore Emilio Casalini.
E a proposito di parole mi permetto di fare una riflessione personale e aggiungere due ultime parole chiave che sono DIVULGAZIONE e COMUNICAZIONE. Mi è parso chiaro che la comunicazione di cosa sia il jazz italiano oggi e di dove voglia andare sia uno dei punti focali. Comunicare quanto è “figo” entrare in un jazz club” (ha detto Rosario Moreno dell’Associazione Locali Jazz), comunicare che il jazz non è una musica elitaria.
Personalmente lavoro con la musica, tutta, da 25 anni in radio, 22 dei quali trascorsi a Radio Rai. La radio è un media antico, ma si è dimostrato quello che invecchia meglio mescolandosi virtuosamente ai nuovi media in maniera bidirezionale: con i social, con le piattaforme streaming, con la nuova televisione on demand, con i podcast. Sappiamo quanto la radio, soprattutto la radio di stato, nei decenni passati abbia rappresentato una straordinario mezzo per divulgare musiche “non convenzionali”, non mainstream, squarci nella monotonia delle playlist quotidiane, comprese quelle che ci fornisce oggi l'algoritmo di Spotify. Perché ricordiamoci che dietro l'algoritmo c'è sempre un uomo, un “data scientist” come si chiama, che decide qual'è la regola.
Ebbene, oggi tutto questo lavoro di divulgazione in radio è sempre più difficile, perché anche noi abbiamo i nostri data scientist, i nostri direttori della programmazione musicale, anche noi abbiamo i nostri algoritmi stringenti: le playlist imposte dall'alto che schiacciano spesso la qualità verso il “commerciale”. Non si può trasmettere un pezzo con un solo di chitarra, figuriamoci se in un network si può trasmettere un pezzo jazz. O forse sì, ma solo se è jazz vocale, che però deve essere molto famoso, e che non si tratti però di torch singers perché sono troppo notturne e l'ascoltatore potrebbe annoiarsi alle tre del pomeriggio. Misteri. Uno strano e inspiegabile atteggiamento di omologazione più realista del re (perché non è dettato da esigenze commerciali, di pubblicità, o quant'altro) impone ai nostri direttori di percorrere le stesse strade delle commerciali.
Ecco se facciamo il jazz bene, se riusciamo a vivere di jazz, a promuoverlo, a creare degli eventi, a dialogare con le istituzioni sui territori, dobbiamo anche saperlo divulgare, nella scuola certamente, ma anche attraverso i nostri mezzi di informazione, riprendendo il filo interrotto della grande opera fatta nei decenni passati.
Se la musica è condivisione, noi tutti dobbiamo condividere una nuova strategia comunicativa che dia importanza alla diversità, preziosa lezione che ci offre il jazz. '
Silvia Boschero