La Federazione Il Jazz Italiano ha intervistato Francesco Martinelli, organizzatore di concerti, giornalista, saggista, traduttore, insegnante e conferenziere. Ha collaborato negli anni Settanta alla organizzazione delle memorabili Rassegne Internazionali del Jazz di Pisa; dopo aver sostenuto la fondazione a Pisa dell’Europe Jazz Network, oggi una delle reti di cooperazione culturale più importanti d’Europa, partecipa alle sue attività con interventi e articoli. Come giornalista ha collaborato a musiche, Musica Jazz, Coda, e numerose altre riviste di jazz internazionali. Attualmente collabora a Il Giornale della Musica, scrive di jazz per la rivista americana New York City Jazz Record e di musiche tradizionali per la rivista inglese Songlines. Ha iniziato a tradurre libri di musica dall'inglese all'italiano negli anni Ottanta, ideato e condiretto la Collana di cultura musicale in collaborazione tra EDT e Siena Jazz, e la collana Sonografie con la pisana ETS, pubblicando come curatore e traduttore una quindicina di volumi. Collabora all’Enciclopedia della musica Treccani (2025). Ha insegnato per diversi anni a Istanbul alla Bilgi University. Ha insegnato Storia del Jazz e della Popular Music ai Conservatori di Trento e Rovigo, e oggi insegna presso il Conservatorio Verdi di Torino, l'Istituto Musicale Mascagni di Livorno, e la Siena Jazz University, oltre a tenere conferenze e masterclass. Si è occupato per molti anni dell’Archivio Polillo a Siena Jazz. Ha collaborato con il Barbican di Londra per la sezione jazz della mostra Boom For Real dedicata a Jean Michel Basquiat e alla musica e ha coordinato un vasto progetto internazionale promosso dall'Europe Jazz Network per la redazione di una storia del Jazz in Europa pubblicata dalla inglese Equinox.
Cosa ha fatto nascere la tua passione per lo studio storico della musica?
Penso sia il desiderio di capire che significato si possa attribuire alla musica stessa, indagando alla fine proprio il significato che gli do io al momento del piacere di ascoltare, e come questo sia mutato nel tempo. Il jazz mi ha permesso di mettere in discussione una serie di categorie interpretative che diamo per scontate, e tutti i canoni storici con i loro pesanti condizionamenti ideologici. Ma tutti musicisti dell’avanguardia con cui ho lavorato negli anni 70 e 80 – Braxton, Lewis, Smith, Abrams - mi ripetevano la stessa cosa: devi ascoltare Armstrong, Bechet, Jelly Roll. Lo faccio da allora e forse lentamente comincio a capire qualcosa.
Cosa ti ha sorpreso del Jazz la prima volta che lo hai ascoltato?
L’inventiva, l’idea che arrivasse qualcosa di inatteso. Da bambino ai concerti classici ero sempre un po’ deluso dai pezzi che venivano eseguiti, nessuno arrivava al mistero evocato dal momento in cui l’orchestra accordava. Poi grazie a Gaslini e alla Gioventù Musicale ho visto i primi concerti dal vivo, e nei negozi di dischi dell’epoca ho incontrato le persone che mi hanno consigliato e ispirato.
Se dovessi scegliere un solo brano per raccontare cos'è jazz a chi non lo conosce, quale sceglieresti?
Summertime nella versione di Sidney Bechet del 1939, e ci infilerei surrettiziamente anche un brano collegato, registrato da Jelly Roll Morton per Alan Lomax.
Quali sono gli argomenti di storia del jazz che attirano maggiormente l'interesse dei tuoi studenti?
Il mio compito è destare il loro interesse verso gli argomenti che non conoscono già, quindi preferisco registrare il loro entusiasmo per la scoperta di Weather Bird di Armstrong/Hines o di Jesus Maria di Carla Bley con Jimmy Giuffre e Paul Bley. In genere vedo che sono favorevolmente sorpresi quando si allarga lo sguardo e si trovano collegamenti che non si aspettano, magari tra Jimmy Smith e Michael Jackson. Per fortuna al Mascagni di Livorno posso insegnare anche storia della popular music, argomento che trovo molto fertile per tutti coloro che si occupano di jazz, mentre al Verdi di Torino l’interazione con le ragazze e i ragazzi del CAM (DAMS) permette di estendere lo sguardo a cinema, teatro e danza, con risultati assai soddisfacenti. L’entusiasmo delle ragazze (e l’imbarazzo dei maschi) per la mia lezione sulle donne nella storia del jazz è anche molto gratificante. Molte ragazze compiono un intero corso di studi di jazz senza sentir parlare di Lil Armstrong, Mary Lou Williams, le Sweethearts of Rhythm, Hazel Scott, Melba Liston, eccetera.
Come descriveresti l'attuale panorama del jazz italiano?
Ognuno di noi ne vede solo un piccolo spicchio, non credo nessuno possa vantare una percezione completa del panorama. Io vedo una grande fioritura di talenti con molti giovani musicisti che sfruttano le possibilità di fare rete a livello internazionale, e allo stesso tempo molti professionisti già affermati che fanno musica di altissima qualità maturando le loro scelte stilistiche. C’è una grande difficoltà a incontrare il pubblico e una strozzatura degli spazi della distribuzione sia di musica registrata che dal vivo, come d’altra parte nell’informazione; dove ci si riesce a inventare strategie di lunga durata tuttavia i risultati si vedono.
Tu che hai scritto una importantissima e cospicua storia del jazz europeo, quali pensi siano stati i punti critici (se ci sono stati) o al contrario gli elementi caratterizzanti e innovativi nella storia del jazz italiano?
Ti ringrazio, per la precisione il volume cui ti riferisci non l’ho proprio scritto, più modestamente curato. Purtroppo la sua mole deve aver spaventato molti, visto che non ha aperto il dibattito che speravo, malgrado affronti questioni che ritengo rilevanti. Il più grave punto critico della storia del jazz italiano è l’innata parcellizzazione, personalizzazione, il campanilismo del nostro paese, che si è innestato in una cronica mancanza di spazi e di interesse da parte delle istituzioni. Con spazi mi riferisco non tanto a luoghi fisici, quanto a una rete di strutture locali in cui far pratica di programmazione culturale territoriale. Questo ha creato una situazione a macchia di leopardo nello spazio e nel tempo, con assolute eccellenze e vasti deserti, con periodi d’oro e lunghi silenzi. Non è cresciuta ancora una generazione di operatori (gestori di club, direttori artistici, operatori dell’informazione, in una chiara distinzione di ruoli con i musicisti) all’altezza di quello che la situazione richiede: la maggior parte dei nostri festival sono proprietà delle persone o dei gruppi che li hanno creati, con essi nascono e muoiono senza diventare istituzioni stabili. In altri paesi europei i curatori dei festival jazz sono professionalizzati, come gli agenti, i promotori, i giornalisti/critici, eccetera. Il volontarismo e la passione arrivano solo fino a un certo punto, non possono costituire l’unica base. Dal punto di vista del discorso critico ci si è affannati a dividere e a selezionare, invece di valorizzare la radice africano-americana comune a tante musiche. Il jazz è stato percepito come musica parrocchiale, difficile, isolata, diversa. D’altra parte se si elimina dal jazz tutto quello che è popolare poi non ci si può lamentare di aver tra le mani qualcosa di poco popolare. Purtroppo la riflessione storica su cosa è stato e cosa ha significato il jazz in Italia è molto indietro. Io, ad esempio, sono molto colpito dal fatto che i grandi etnomusicologi italiani, prima addirittura Nataletti, e poi Leydi e Carpitella nel dopoguerra, siano stati sostenitori del jazz, e poi il rapporto con tutto questo mondo sia stato reciso. Per fortuna studiosi come Goffredo Plastino (emigrato in UK) lavorano per ripristinarlo. Un maestro internazionale degli studi sulla popular music come Franco Fabbri è stato ostracizzato dalla parrocchia jazzistica, e per fortuna il suo allievo Jacopo Tomatis tra gli altri porta avanti la ricerca. Gli elementi caratterizzanti e innovativi sono stati la qualità dei musicisti che hanno portato il jazz italiano nel mondo, Gaslini, Rava, Trovesi, il Perigeo, e gli altri delle generazioni più giovani. Ma anche per questo sarebbe necessaria una ricognizione storica che non mi sembra prossima.
Il jazz italiano credi sia abbastanza conosciuto e apprezzato in Europa? In che modo agire per un maggiore riconoscimento?
Assolutamente no, fatta eccezione per alcune luminose eccezioni di musicisti che hanno investito molto nella creazione di rapporti internazionali. Per avere riconoscimento bisogna investire nel movimento di base, nelle istituzioni e nelle occasioni educative, e favorire gli scambi e la conoscenza di ogni tipo. Basta guardare all’esperienza delle nazioni scandinave. La nostra presenza a livello europeo, in tutti i settori del nostro campo, è estremamente limitata se la paragoniamo alle nazioni guida del continente. Come in altri campi l’Italia dovrebbe essere all’avanguardia nel campo del dialogo mediterraneo, ma questo aspetto non mi sembra sufficientemente valorizzato, almeno a quanto vedo io, nella mia personale esperienza. Le nostre regioni soprattutto meridionali dovrebbero pullulare di festival jazz in cui si invitano operatori europei e si incrementa il dialogo tra le coste del mediterraneo.
Esiste una Federazione come IJI in Europa?
Penso che tu lo sappia, esiste la Europe Jazz Network, creata e per molto tempo vissuta in Italia grazie all’intuizione di Filippo Bianchi con un gruppo di personaggi europei altrettanto innovativi e poi al lavoro di molti altri amici e colleghi, a cui mi onoro di aver dato un sostegno attivo al momento giusto, quando l’EJN fu ufficialmente fondata a Pisa. I suoi vertici ruotano regolarmente con elezioni democratiche assicurando ricambio. Si tratta di una delle reti culturali di maggior successo in Europa e costituisce un esempio virtuoso di collaborazione, il suo meeting annuale è diventato una delle più importanti scadenze del calendario del jazz mondiale. Per quanto mi riguarda personalmente è molto più interessante di Jazz Ahead a Brema, in cui prevale l’aspetto commerciale. E’ una rete di presentatori e organizzatori, ha regole molto chiare e un funzionamento trasparente, ha creato un contesto in cui nascono e si sviluppano collaborazioni di alto livello di cui personalmente ho molto beneficiato nel corso degli anni, compresa la produzione del libro sul jazz europeo cui EJN ha dato un sostegno decisivo. Penso tutte le associazioni simili dovrebbero studiare questo modello e capire da dove trae la sua forza, oltre che naturalmente quali possono esserne i limiti.