Sono le colonne portanti delle nostre associazioni, collaboratrici e collaboratori storici appassionati che spesso lavorano in seconda linea. Questo nuovo ciclo di interviste intende farne conoscere competenze e qualità, oltre ad approfondire le attività che svolgono.
Conosciamo Giuseppe Flavio Pagano.
- Quando e come hai scoperto il Jazz e come lo definiresti?
La scoperta del jazz avvenne in parallelo con quella della musica classica.
Quando ero alle scuole medie avevo un buon docente di musica… e ci fece incuriosire su molti generi musicali, tra cui musica classica e jazz in primis. Mi ricordo ancora le sessioni d’ascolto durante le sue ore di lezione dove si giocava a riconoscere dai vari timbri quale strumento interveniva o chi poteva essere il compositore.
All’epoca vivevo in un paese di circa 1000 abitanti in Sicilia, e andavo spesso in biblioteca comunale perché non c’era molto da fare. Inutile dire come la biblioteca comunale fosse quasi sempre deserta, così il bibliotecario – che era un clarinettista diplomato al conservatorio – spesso si teneva in esercizio suonando sia pagine di Mozart o Gershwin, che anche qualche standard jazz. Talmente rimasi colpito da quella musica che poi quando passavo dagli autogrill facevo incetta di musicassette dalle ceste delle occasioni, costavano pochissimo ed erano degli album favolosi. La scelta avveniva rigorosamente a caso. Tra i tanti presi c’erano Ellington at Newport e The Koln Concert di Keith Jarrett.
Così mentre tutti ascoltavano le compilation del Festivalbar io mi portavo a spasso quella musica. Non ero profondo, ero (e sono) molto presuntuoso.
- Di cosa ti occupi nella/e realtà con cui collabori?
Mi occupo di comunicazione sui social per I-Jazz, il network dei maggiori festival jazz italiani, e per Toscana Produzione Musica, uno dei neonati centri di produzione nati in Italia. A questa attività spesso anche la fotografia di concerti (non solo jazz, anzi vengo da una gavetta di lungo periodo nel campo lirico-sinfonico e musica leggera).
- Come si potrebbero avvicinare i più giovani e un pubblico diverso al Jazz?
Penso che il jazz per molti aspetti si sia canonizzato come genere, diventando qualcosa di codificato, perdendo in parte la sua natura popolare ed eversiva che ha avuto nel corso del Novecento. Per rendere il jazz qualcosa di attuale, che attiri nuovo pubblico, bisogna ridare al jazz l’occasione di parlare al nostro tempo. Ora dirò una cosa impopolare ma di cui sono convinto. Al Jazz non serve la ricerca del consenso a tutti i costi. La ricerca di nuovo pubblico non deve diventare l’ossessione di molte manifestazioni, al punto da piazzare un concerto jazz in contesti non idonei all’ascolto consapevole. Il rischio è di farlo diventare un fondale sonoro per un pubblico che continuerà a rimanere indifferente a questo genere. Meglio investire nelle scuole, così da far diventare il suo linguaggio familiare e spingere naturalmente alla curiosità. Per il resto un fan cinquantenne di Biagio Antonacci dubito che subirà una conversione sulla via di Damasco.
- Dalla tua prospettiva quali sono i punti di forza e quali i punti di debolezza del sistema del jazz?
Il sistema jazz ha da sempre attirato il mio interesse per la sua grande fluidità e la vocazione naturale alla collaborazione dei suoi interpreti. Non ci sono le dinamiche da guerra feudale (se non in minima parte) tipiche della musica pop o rock. Un musicista nel corso della sua carriera collabora con decine e decine di artisti diversi, spesso viaggia su progetti paralleli, ha tutte le occasioni per dare nutrimento alla sua curiosità. Anche i festival ragionano in termini di rete e questo permette la realizzazione di situazioni federate (penso a TrentinoJazz) o la circuitazione di progetti di pregio.
Un suo limite è purtroppo la ridotta presenza femminile, sottorappresentata sia dal lato artistico che dal lato di event management, eppure sappiamo benissimo che il jazz e la sua storia ci racconta di figure femminili formidabili, anche in tempi recenti. Ancora oggi giornalisti (maschi) si sorprendono che esistano donne batteriste jazz o contrabbassiste, altri si sorprendono che dei festival siano in mano a un management femminile… questo la dice lunga su quali retaggi culturali sono ancora presenti.
-Hai collaborato (o tutt’ora collabori) con altri settori culturali, cosa consiglieresti di importare in quello jazzistico?
Lavoro nel campo del marketing, e quello che posso dire è che mi auguro che il jazz non diventi mai una merce o un brand commerciale. La tentazione di trattare la musica alla stregua di un prodotto è sempre forte, soprattutto quando si devono far quadrare i conti di un festival, quando si devono piazzare concerti in contesti difficili, ma ragionare solo in questi termini porterebbe ad assecondare i gusti delle maggioranze o delle mode del momento, e questo non porta alcun avanzamento né sociale né culturale. Io nutro un’ammirazione smodata per quegli eroi che spesso organizzano dei live in luoghi sperduti dell’entroterra, scontrandosi con amministrazioni comunali che vogliono il nome grosso e offrono budget piccoli, un pubblico che vuole sentire la cover band dei Queen mentre sgranocchia arachidi, più difficoltà logistiche di ogni tipo.
- Come ti immagini il Jazz del futuro?
Me lo immagino più contaminato con altri generi, soprattutto con l’elettronica. Ma mi auguro sempre che ci siano ascoltatori accaniti di Coltrane o di Ellington, che sappiano riconoscere la fuffa spritz-friendly che si spaccia per musica colta.