La Federazione Il Jazz Italiano ha intervistato Valerio Corzani, musicista, autore e conduttore radiofonico, giornalista e fotografo. Scrive di musica e viaggi per Il Manifesto, Alias, Il Giornale della Musica, Lucy, Exibart e Lonely Planet. Collabora dalla metà degli anni ’80 con RadioRai e oggi è una delle voci più note di Radio3. Dal 2006 presenta programmi anche per la Rete Due della RSI. Le sue foto sono state acquisite dai cataloghi di Getty Images e Eyeem e pubblicate in diverse riviste italiane ed europee. Da molti anni realizza sul magazine online Blogfoolk una rubrica di ritratti fotografici: Corzani Airlines. A partire dal 2018 ha realizzato varie mostre, allestite in italia e all’estero: “Black People in a White World”, “Altrove” e “Geometria dell’incanto”. Quest’ultimo è un itinerario nella bellezza italiana poi pubblicato dalla Treccani nella collana dei Libri d’Arte. Come musicista è stato il bassista dei Mau Mau, il co-leader dei Mazapegul, de Gli Ex e dei Daunbailò. Oggi guida il progetto elettronico Interiors, insieme ad Erica Scherl e il combo world-reggae Caracas, con Stefano Saletti.
Quando e come ti sei avvicinato alla musica?
Posso dire che la musica è diventata la mia ossessione a partire dai dodici, tredici anni. A quattordici ho cominciato a suonare il basso elettrico e da quel momento il legame non si è più reciso. Ho iniziato da un piccolo paese della Romagna, San Piero in Bagno, sul finire degli anni Settanta. Cercavo forsennatamente di connettermi con dei flussi di informazioni e di suoni che all’epoca non era così semplice intercettare. Ma avevo una vera e propria “scimmia” per la musica e un modo per “abbeverarsi” comunque lo si trovava anche allora. Avevo gusti molto onnivori, dai Beatles agli Area, dai Perigeo a Neil Young, fino a John Cage che è diventato un’ossessione ulteriore e una parte fondamentale del mio background, dal momento che qualche anno più tardi mi sono laureato in Estetica a Bologna proprio con una tesi su questo grande protagonista dell’avanguardia statunitense.
Quale è stato il tuo primo ascolto jazzistico?
Difficile dirlo. Se proprio devo andare agli albori dei miei ascolti jazz credo di dover citare la collana “I Grandi del Jazz” della Fabbri Editori. Ogni settimana aspettavo una nuova uscita con eccitazione vorace. E se proprio devo citarti un nome e un brano credo di aver consumato il numero dedicato a Charles Mingus che si apriva con i meravigliosi dieci minuti e trentasette secondi di “Pithecanthropus Erectus”. Al fianco di Mingus in quell’incisione c’erano Jackie McLean al sax contralto, J.R. Monterose al sax tenore, Mal Waldron al pianoforte, Willie Jones alla batteria. Si trattava di un quintetto, ma la grande capacità che aveva il leader di far giocare i suoi musicisti con le dinamiche mi ha sempre fatto pensare alla bocca di fuoco di una big band. Era come se Mingus in quel pezzo moltiplicasse continuamente il piatto timbrico della sua composizione. Si apriva al free, forse per la prima volta (la registrazione è del 1956) e allo stesso tempo affondava le radici nel blues, la corteccia di tutta la musica afroamericana. Non solo, in quel pezzo Mingus raccontava la storia dell’uomo, i suoi passi tentennanti, i suoi voli e le sue cadute. È un brano fenomenale, che non ha perso nulla della sua devastante urgenza espressiva, neppure quasi settant’anni dopo la sua incisione.
Sei autore, giornalista, conduttore radiofonico, musicista e fotografo: qual è il filo che lega tutte le tue attività?
Se mi chiedono che mestiere fai io di solito rispondo che mi occupo di “suoni e geografie”. In effetti le mie varie attività ruotano perlopiù intorno a queste due componenti. Posso dire che l’esplorazione delle culture musicali e l’attraversamento di uno spazio geografico - dunque il viaggio, la scoperta attraverso il nomadismo - costituiscono la dorsale di quasi tutti i miei interessi. C’è quasi sempre stata una pepita sonora (un disco, un festival, un musicista) o una latitudine da raccontare nelle cose che ho fatto: poteva trattarsi di volta in volta di raccontare un festival in Colombia o a Capo Nord, suonare con i Mau Mau in Iraq o con gli Interiors nella grotta del Bue Marino in Sardegna, portare in giro uno spettacolo teatrale con Freak Antoni sul sesso nella canzone italiana, realizzare una trasmissione radiofonica sui nativi americani o sull’elettronica ucraina, scrivere un reportage da Marsiglia, compilare una voce per l’Enciclopedia Treccani o allestire una mostra fotografica a L’Havana o Santiago del Cile…poco importa: la placenta da cui partivo era sempre quella di questi due macrotemi, o almeno di uno dei due.
In fondo anche in alcuni approfondimenti apparentemente al di fuori da questi due recinti (peraltro molto laschi), come ad esempio il ciclo sugli scacchisti russi o quello sui grandi campioni del basket statunitense che ho realizzato per Radio3 o il reportage sul pugilato a Cuba che ho scritto per la rivista online Lucy, credo di ritrovare affinità con la definizione del mio campo d’interesse principale, se non altro con lo scomparto legato alle “geografie”…
Quali sono le fonti di ispirazione della tua fotografia?
Ho avuto una specie di flirt adolescenziale con la fotografia che, però poi, ho abbandonato. Devo dire che la nuova infatuazione è dovuta soprattutto a questioni ed esigenze pratiche, molto concrete. Capitava spesso durante i miei viaggi, le mie escursioni per seguire i festival musicali che mi ritrovassi a dover cercare un fotografo per illustrare i miei articoli. A volte, la cosa era piacevole ed entusiasmante perché magari mi consentiva di fare nuove conoscenze, incontrare professionisti ed artisti dell’immagine. In altre occasioni, invece, diventava tutto molto molto complicato, faticoso, esasperante…A un certo punto ho deciso di cominciare a fare tutto da solo. In questo senso ha avuto un peso l'evoluzione tecnologica e l’inarrestabile onda digitale, sia per quanto riguarda la manovrabilità sia per l’efficacia del taglio che volevo dare ai miei reportage fotografici. Piano piano questa cosa mi ha preso davvero la mano. Ho scoperto che attraverso le immagini, anche attraverso una sola immagine, spesso si raccontano storie che si intrecciano in maniera molto profonda e rappresentano con molta efficacia l'umore dei luoghi che sto attraversando, delle musiche che sto ascoltando. La fotografia poi si gioca le sue chances con una componente che nella musica è assente, ovvero la luce, le infinite possibilità di declinazione di questa componente visiva che però potrebbe anche essere definita come componente timbrica. La grana di una fotografia è in fondo importante e decisiva quanto la grana di uno strumento o l’impasto di una sezione orchestrale. C’è poi un’altra affinità fondamentale tra musica e fotografia: la composizione spaziale. Il posizionamento e la distribuzione degli spazi. Chiunque abbia partecipato al missaggio di un album sa quanto sia importante la giusta collocazione delle fonti sonore e quanto si possa decidere il destino di un brano attraverso le scelte che si fanno in studio in quel momento. Ebbene il fotografo attraversa lo stesso tipo di variabili e approfitta di occasioni simili ogni volta che scatta una foto (decidendo il taglio, spingendo o meno lo zoom, calibrando gli effetti…) e reitera questo processo alchemico ogni volta che decide di intervenire ritoccandola in postproduzione.
Quali gli stimoli o i riferimenti per ideare i tuoi programmi radiofonici?
Ovviamente sono tantissimi. È dai primi anni Ottanta che mi invento avventure radiofoniche e invento format. Il primo ciclo in assoluto che ho fatto per la Rai, me lo commissionò un grande maestro come Adriano Mazzoletti che mi chiamò a Roma dopo avermi notato in un workshop che teneva a “Barga Jazz”. Si trattava di una serie di trasmissioni dedicate a “Gli strumenti inconsueti del jazz moderno” dunque musicisti jazz che armeggiavano zampogne, duduk, scacciapensieri, didjeridoo, hardingfele, cajon…era il 1986. Se mi guardo indietro molte delle cose che ho ideato (come “Sei Gradi” su Radio3) e molte di quelle che ho presentato (come “Babilonia” per la Retedue della Radio Svizzera Italiana o “Alza il volume” e “L’idealista” ancora per Radio3) hanno come matrice comune la voglia di abbattere i muri tra le musiche. Alzare la gonna agli stili musicali e mostrare che spesso i fili che li muovono non sono così diversi tra loro o che, se ci sono, le loro diversità si parlano. È una missione che ho sempre sentito urgente e che mi sembra ancora essenziale, perché ci sono tutt’ora troppi “fortini” a difesa di purezze e ortodossie che i musicisti stessi hanno rinnegato da un bel po’ (almeno la maggior parte di essi). Congegnare trasmissioni in cui si possa ballonzolare allegramente tra la musica di Mingus e quella di Joni Mitchell rende omaggio in modo credibile al fatto che loro stessi avevano deciso di incontrarsi e fare un disco insieme. Siglando un patto creativo che, quando venne celebrato, aveva scandalizzato soltanto i miopi e gli stolti.
Quali sono le caratteristiche di un brano che smuovono il tuo stupore e la tua curiosità?
Dipende. Quasi mai lo stupore è legato al puro e semplice virtuosismo strumentale. Tra Oscar Peterson e Thelonious Monk vengo sedotto molto più dal secondo. Ho anche una predilezione che qualcuno potrebbe reputare pericolosa per l’interattività e per la lentezza. E allo stesso tempo sono capace di ascoltare in sequenza una ballad sinuosa suonata da Paul Desmond e poi un pezzo furibondo di un gruppo come gli Slipknot o l’Aphex Twin più noise…Cerco di tenermi aggiornato e ascoltare anche cose nuovissime, ma continuo anche a stupirmi di quanti bacini meravigliosi di folk acustico vengano ancora ignorati dall’ascolto mainstream. Pochi giorni fa ascoltavo musica tradizionale del popolo Ainu. Arriva da un’isola del giappone ed è suonata col tonkori, un'arpa a cinque corde. Ebbene, è bellissima, e non la conoscevo fino all’altro ieri…Mi interessa il nuovo disco di Kamasi Washington, ma mi interessa anche questa roba qui, che ha quasi un millennio di storia.
Cos'è Jazz?
Di fronte a domande del genere verrebbe da alzarsi in piedi e rispondere come suggeriva di fare John Cage nella sua Conferenza su niente (1959): “Ottima domanda. Non vorrei rovinarla con una risposta”.