La Federazione Il Jazz Italiano ha intervistato la giornalista Claudia Fayenz.
Claudia Fayenz è nata a Padova. È cresciuta a Milano in un ambiente familiare musicale e ha iniziato molto presto, durante gli studi universitari, a pubblicare come free-lance su diverse testate. Nel 1994 viene ammessa alla scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia, fondata dalla RAI, dove viene chiamata nel 1997 alla redazione del tg2. Si trasferisce a Roma e nel 2007 passa alla redazione cultura e spettacoli del giornale radio di cui attualmente è caposervizio. Si occupa prevalentemente di musica.
Quando e come ti sei avvicinata alla musica? Quale è stato il tuo primo ascolto jazzistico?
In realtà non mi sono avvicinata alla musica: ci sono proprio nata dentro. Oltre al lavoro di papà, mia mamma ha studiato pianoforte e si è diplomata in Conservatorio. Proprio per questo non ricordo un ‘primo ascolto’ perché casa mia era sempre piena di musica. C’erano le novità discografiche che mio padre ascoltava per lavoro e c’erano i dischi che metteva perché gli piacevano. E non era solo jazz ma anche musica classica, Gaber, Vanoni, Jannacci. Venivano molti musicisti a casa: ricordo Jerry Mulligan, Paul Bley ma anche Tullio De Piscopo e altri italiani. Poi c’erano i concerti. Mi ricordo tante serate al Capolinea di Milano, al Black Saint in piazza Duomo, al Santa Tecla, alle Scimmie. C’erano Mario Rusca, Renato Sellani, Gianni Basso, Enrico Intra con Franco Cerri e molti altri. A volte papà mi portava a certi rumorosi concerti che poi ho capito essere il free jazz, ma erano gli anni Settanta ed ero piccola. Più avanti ho conosciuto alcuni dei miei miti: Friedrich Gulda, Joe Zawinul…
Cosa pensi dello spazio che i media riservano al jazz? Quali le difficoltà, se ci sono, nel parlarne in radio?
Lo spazio che i media dedicano al jazz è sempre più striminzito purtroppo, forse perché si rincorrono troppo gli ascolti e si finisce per proporre sempre le stesse cose che ‘atrofizzano’ la capacità del pubblico di spaziare in ambiti più ampi. È un peccato perché in questo modo si impedisce alle persone di scoprire generi e artisti il cui ascolto potrebbe donare grandi e sconosciute gioie… Questo avviene in televisione più ancora che alla radio, che è un mezzo più veloce, a vocazione musicale e dunque ancora consente qualche spazio. Ma rispetto a quel che accadeva fino alla fine degli anni Ottanta o primi Novanta, il jazz è relegato in una ‘nicchia’, parola che considero claustrofobica e ghettizzante. Tuttavia, finché mi terranno aperto il microfono, continuerò a parlarci dentro!
Le donne sono rare nel settore giornalistico soprattutto musicale: come è stata la tua carriera? Hai avuto ostacoli in quanto donna?
Le donne sono sempre state una rarità mal tollerata nel jazz e lo sappiamo tutti. Al massimo qualche cantante. Bello che tante strumentiste di grande talento oggi si stiano facendo strada. Significa che qualcosa sta cambiando. Come giornalista ho incontrato un’infinità di ostacoli, ma in realtà non in quanto donna. Diciamo che ho fatto una lunghissima gavetta e al giornalismo musicale mi sono avvicinata con grande cautela, anche perché non mi piaceva che si collegasse in modo sbrigativo il mio lavoro al cognome che porto. Nel frattempo, mi sono occupata di Medicina, Economia, Esteri, Costume…!
Dal tuo osservatorio quali direzioni pensi debba intraprendere il jazz italiano per un maggiore sviluppo e attenzione da parte del pubblico più giovane?
Sono profondamente convinta che i musicisti di domani, ma anche gli ascoltatori di domani, si formino da piccoli. Credo sia imprescindibile un radicale rinnovamento dell’insegnamento della musica – e dell’ascolto – fin dalla scuola primaria. Il jazz in particolare è una musica che ha sempre conquistato adepti a partire dai dischi. Più appassionati, più orecchie potrebbero significare un aumento della domanda e quindi sperabilmente maggiori investimenti.
Cosa ti colpisce di più in un concerto di jazz e quali sono le caratteristiche imprescindibili che un jazz festival deve avere?
Credo che un festival debba dare spazio sì ai grandi nomi, ma non limitarsi a intercettare gli artisti di richiamo in tournée. Lo stesso dovrebbero fare le etichette discografiche. Di pari importanza sono i palcoscenici per far conoscere i giovani musicisti e, proprio per stimolare il pubblico, iniziative che ‘attraggano’, magari contaminando la musica con altre discipline, perfino con il cibo; incontri sottoforma di lezioni concerto, approfondimenti, ascolti guidati, testimonianze, proiezioni di film: tutto ciò che serva ad avvicinare questa musica, che dall’esterno a volte appare un po’ come una turris eburnea misteriosa e inaccessibile.
Hai avuto un padre straordinario, Franco Fayenz, importante critico, storico giornalista: quale è la cosa più preziosa che ti ha trasmesso di questo variegato mondo del jazz e qual è il racconto che ti ha più colpito?
Mio padre non mi ha ‘insegnato’; direi piuttosto mi ha fatto respirare un certo clima. Che potrei sintetizzare nell’idea che il jazz non sia meramente un genere musicale ma uno stile di vita. Da lui ho imparato che la divulgazione è rendere semplici le cose difficili tenendosi lontani dalle banalizzazioni. Che è necessario saper parlare a tutti. Senza ergersi in cattedra, senza paludamenti ma in modo puntuale, preciso e al tempo stesso leggero, perché tutti hanno il diritto di accedere alle cose belle. Non è stato né facile, né immediato. Però gli sono riconoscente. Forse per questo qualcuno lo chiamava “il Piero Angela del Jazz”.