La Federazione Il Jazz Italiano ha intervistato Luigi Onori, critico, saggista, docente e storico. Scrive per “il manifesto” dal 1982, ha collaborato a riviste di settore (“Musica Jazz”, “il giornale della musica”…), pubblicato libri su Jazz e Africa, Paolo Fresu, il Perigeo e Abbey Lincoln nonché una corposa “Storia del Jazz” (Hoepli, 2020) con R.Brazzale e M.Franco. Ha insegnato in conservatorio (“L.Refice”, Frosinone) per 15 anni, è docente al S.Louis Music College (dal 2015) e collaboratore della romana Casa del Jazz (dal 2007).
Come è nata la tua passione per la musica?
Le mie amate sorelle maggiori, Silvia e Roberta, mi hanno cresciuto nella musica, soprattutto Beatles ma anche Rolling Stones, Bob Dylan, Donovan, De Andrè, Battisti… A tredici anni ho iniziato a suonare la chitarra e a seguire la musica autonomamente, restando folgorato dai Led Zeppelin; il loro secondo album è stato il primo vinile che ho comprato. Amavo, con i miei amici più stretti, la scena inglese vicina al blues e i gruppi progressive. Poi sono andato nel 1973 ad Umbria Jazz: il sestetto di Charlie Mingus e il quartetto di Elvin Jones mi hanno rapito e la mia vita è cambiata.
Quando hai iniziato a scrivere per la prima volta di musica?
Scrivo dal 1982 su “il manifesto” ma nei primi tempi, in contemporanea, Gerlando Gatto mi diede la possibilità di pubblicare (su “L’Umanità”) una serie di interviste a jazzisti italiani, fra cui Bruno Tommaso. Sono ancora grato a Gatto per quella opportunità. Devo ad Adriano Mazzoletti anche la realizzazione di programmi radiofonici all’inizio della mia carriera.
In che modo è cambiata la narrazione del jazz oggi?
Quando ho cominciato a fare il critico jazz la narrazione era legata a supporti cartacei (giornali e riviste) che destinavano spazio alle recensioni e ai dischi. La critica era tenuta in alta considerazione da organizzatori, musicisti e pubblico; esisteva una “gavetta” e si imparava dai più bravi. Nel mio caso Marcello Piras (di cui sono stato allievo), Roberto Silvestri e Giampiero Cane (“il manifesto”), Pino Candini (“Musica Jazz”), Franco Fayenz e Vittorio Franchini (su varie testate). Oggi viviamo in una galassia comunicativa, veicolata soprattutto dalla rete, dove chiunque può scrivere, gli organi di stampa sono in netto declino e il ruolo di “mediatore” del critico musicale è quasi completamente saltato. Personalmente mi ostino a raccontare (a parole) la musica nelle sue emozioni, nella sua struttura, nella sua dinamica e nelle sue relazioni. Vedo diffondersi uno specialismo spocchioso e arido insieme ad un pressapochismo sciatto e presuntuoso; la divulgazione, la comunicazione e un sano (corretto e costruttivo) spirito critico dovrebbero, invece, restare una priorità.
Se dovessi scegliere un solo brano per raccontare cos’è il jazz a chi non lo ha mai ascoltato, quale sceglieresti?
Questa è una domanda “assassina”. Comunque mi affiderei a “Pithecanthropus Erectus” di Charles Mingus.
Quali sono gli ascolti che ti emozionano di più e in quale modo toccano la tua sensibilità?
Anche questa non è male… Non mi affido ad un solo ascolto. Ciò che, in ogni caso, tocca la mia sensibilità lo verifico con un lavoro di analisi dei brani, su concreti parametri (forma, arrangiamento, soli…) e in una dimensione storica. Mi emozionano comunque musiche che presentano al loro interno novità, spiazzamenti, linguaggi inediti, proposte e idee che ri-cercano e suonano contemporanee. Rubo al grande Giorgio Gaslini la frase secondo cui la tradizione non deve evocare la nostalgia, pur conoscendola e apprezzandola.
Come si sta evolvendo il jazz italiano?
Altra domanda “assassina”. Non ritengo corretto (anche in ambito di Storia del Jazz e della Musica) il termine “evoluzione”. L’arte procede per salti, strappi, ritorni, accelerazioni, arresti… Gli stili – soprattutto, ma non solo, nel jazz – si sovrappongono e coesistono: solo a posteriori, forse, è dato intravvedere linee di tendenza. Noto, però, nel jazz italiano di oggi un generale innalzamento della qualità e preparazione tecnica, un aumento delle jazziste, uno sviluppo verso altri linguaggi secondo la tendenza del jazz ad assorbire quanto accade altrove; in vari casi riscontro anche una positiva sinergia con altre forme d’arte e con la tecnologia, usata in modo creativo. Sono un inguaribile ottimista e non amo la retrotopia, piuttosto diffusa nella mia generazione. A fronte di quanto si muove ci vorrebbero facilitazioni ed opportunità per la musica dal vivo, una maggiore sensibilità al “nuovo” da parte degli organizzatori ed un’azione sui media che favorisse l’apertura (mentale e musicale) e non la riconferma.
Pensi sia importante creare una associazione nazionale di critici, storici e giornalisti da far confluire in federazione?
Penso di sì ma, come espresso più volte, trovo difficile individuare i parametri per far sì che l’associazione rispecchi effettivamente una seppur policroma categoria. Non mi sono mai tirato indietro: ho partecipato all’AMJ (associazione nazionale musicisti di jazz) nei primi anni ’90 come direttore responsabile del bollettino, sono stato socio fondatore nel 1992 (e direttore responsabile del bollettino) della SISMA (società italiana per lo studio della musica afroamericana), membro della SIdMA (2001) e di MIDJ (2015). Ritengo che spetti alle giovani generazioni farsi carico di una nuova associazione: il mio appoggio e la mia partecipazione non mancheranno.