La Federazione Il Jazz Italiano ha intervistato Pino Saulo, autore, produttore e conduttore radiofonico: ha collaborato con Pinotto Fava alla realizzazione di Audiobox ed è da trenta anni responsabile della programmazione jazz di Rai Radio3. Ha prodotto decine di concerti dal vivo, alcuni dei quali sono diventati cd, e trasmesso più di duemila concerti; ha organizzato eventi radiofonici con collegamenti diretti tra varie radio europee (Horizontal Radio, Rivers & Bridges, Radiolines: la voce); ha creato e condotto diversi programmi radiofonici (Inaudito, agguati, Fonorama, Fuochi); è stato il curatore di Invenzioni a due voci; ha ideato e organizzato in collaborazione con la Fondazione Musica per Roma i festival New York Is Now!, Le Labbra Nude, la rassegna be music, night e Fauves!; ha ideato e curato la rassegna Viva! per il Festival RomaEuropa. E’ stato il direttore artistico dell’etichetta Tracce prodotta da Rai Trade.E’ ideatore e curatore di Body & Soul nonché di battiti, in onda tutte le notti sempre su Radio3.
A quale età hai scoperto la musica? Quali sono stati i tuoi primi ascolti?
Cosa rappresentava da bambino e cosa rappresenta ora per te la radio?
Credo di aver ascoltato musica fin da piccolissimo, la radio era accesa in continuazione (la televisione l'avremmo comprata solo più tardi). Il giorno più triste era il 2 novembre in cui veniva trasmessa solo musica classica: era una giornata interminabile. Più tardi avrei seguito saltuariamente la Per voi giovani di Arbore e non mancavo un appuntamento con la Hit Parade di Lelio Luttazzi.
Ma ho anche dei ricordi in ordine sparso: la Coppa del Jazz condotta da Adriano Mazzoletti, un'altra trasmissione nella quale il concorrente ascoltava una canzone, poi era privato dell'audio e quando l'audio tornava doveva essere a tempo con la canzone (era bellissima...), quell'altra trasmissione a cui bisognava inviare una cartolina postale per ascoltare il brano preferito (la inviai, chiedendo di ascoltare Hey Joe di Jimi Hendrix ma forse la cartolina non arrivò mai...).
Da bambino amavo la musica leggera dell'epoca, Gianni Morandi era il mio preferito. Poi il beat: Equipe 84, Rokes, Giganti...
In seguito una passione per Battisti: il primo 45 giri di Battisti che comprai non aveva neanche la copertina ma solo la grafica arancione e nera della Ricordi (mutuata dalla Impulse?) con il buco in mezzo...
Studiavo tutti i pomeriggi con la radio sintonizzata su Per voi giovani, condotta da Paolo Giaccio e Mario Luzzatto Fegiz. Si apriva un mondo...
E quindi da lì in avanti tutto quello che passava in trasmissione: Pink Floyd, Led Zeppelin, Elton John... Come per molti della mia generazione l'approccio al jazz venne dai Soft Machine, dai King Crimson con Keith Tippett...
Quello era e quello è sempre stata la radio: mondi che si aprono, si svelano e indicano, rivelano nuovi intrecci e nuove possibilità.
Battiti come altri spazi su Radio tre da te ideati rappresentano da tantissimi anni un punto di riferimento imprescindibile e prezioso per il jazz anche più sperimentale. Qual è stata l’evoluzione degli ascolti e dell’interesse verso questa musica da parte degli ascoltatori e soprattutto quali sono i consigli che vorresti dare per sviluppare e diffondere maggiormente il jazz attraverso i canali Rai?
Mi sembra che ci sia tanta attenzione e tanto desiderio di ascoltare quello che succede nel mondo; è quello che cerchiamo di fare (con Antonia Tessitore, Ghighi Di Paola, Chiara Colli e tutti gli altri che hanno collaborato a battiti) dalla nostra posizione privilegiata: ricercare, ascoltare, selezionare, proporre, diffondere. Cerchiamo di tenere l'asticella alta e mi sembra che la risposta da parte degli ascoltatori sia ottima. Ecco, non dare mai per scontata l'attenzione e non pensare mai che qualcuno non sia in grado di ascoltare una musica che qualcun altro definisce 'difficile'.
Quali sono i 5 dischi jazz a cui tieni di più?
È la domanda a cui rispondi di impulso, poi dopo aver inviato le risposte ti dici 'ma che cretino! come ho fatto a dimenticare quel disco... e perché non ho messo quell'altro?'
Quindi stiamo al gioco: direi tutto Coltrane (bisognerebbe ascoltarlo fino in fondo e poi tornare a 'Coltrane Plays the Blues' per capire la portata della sua poetica, l'anelito a una musica che fosse comune a tutti i popoli e a tutte le culture del mondo, come rivela bene Mr. Knight che poi diventerà India) e siccome non si può essere generici diciamone uno solo e diciamo A Love Supreme. Ho ancora fiducia che basti quell'attacco del sax a salvare il mondo.Poi diciamo Ornette Coleman, e quel ragazzino impertinente che sta sulla copertina di The Shape Of Jazz To Come attaccato al suo sassofono e incanta con la dolente bellezza di Lonely Woman ( e però...ma quanto può essere bella la copertina di This Is Our Music? E che magnifica dichiarazione di intenti!). Blasé di Archie Shepp, che tra il debutto e il 1975 non ne ha sbagliato una (e la intro di Lush Life dal vivo a Montreux rimane un capolavoro assoluto con quell'attacco distillatissimo del tema). In Blasé la bellezza è all'opera: è un album paradigmatico, c'è la storia del jazz concentrata in cinque tracce. Jeanne Lee è magnifica e nessun altro avrebbe potuto permettersi di suonare con le armoniche a bocca di Chicago Beau e Julio Finn su tutt'altra tonalità...Ovviamente Jazz At Massey Hall...il demone della velocità, il gioco di allusioni, la complicità, il linguaggio in codice, la paraculaggine e la sfacciataggine di chi le cantava al mondo. E il quinto...Mingus, Monk, Billie Holiday, Ellington... faccio il furbo: quello che ancora deve uscire. Ma che sicuramente uscirà.
Se potessi incontrare tre musicisti del passato, con chi faresti una lunga chiacchierata?
Ho avuto la fortuna e il grande privilegio di fare un mestiere per il quale da ragazzino avrei venduto l'anima. Ci sono arrivato relativamente tardi, dopo diversi anni di lavoro altrove e grazie a pochissime persone (Pinotto Fava, Sabina Sacchi...).
Ho incontrato e intervistato tantissimi musicisti, da Cecil Taylor (intervista mancata perché non riuscivo a far funzionare il registratore ma stupenda chiacchierata anche se capivo un terzo di quello che diceva) a Ornette Coleman (tu accenni una domanda e lui inizia a parlare e capisci cosa intende per harmolodic perché ti ha spiegato il mondo e non hai capito come ha fatto), da Andrew Hill (oddiomio!!) a Butch Morris, William Parker, Greg Tate fino ai più giovani Rob Mazurek, Damon Locks, James Brandon Lewis, Mike Reid, Tyshawn Sorey ...
Ciò nonostante, non ho mai amato fare interviste e non credo di essere un bravo intervistatore, per cui non credo onestamente che l'incontro con un grande del passato avrebbe potuto produrre esiti rimarchevoli per il pubblico. Diciamo piuttosto che mi sarebbe piaciuto stare a New York nei primi anni '60, in quei localini del Village dove ci si poteva imbattere in Cecil Taylor che pestava su un pianoforte sgangherato, Bob Thompson che abbandonava i pennelli per ascoltare Ornette Coleman (e poi i due incontravano Moondog - ci sono le foto) e dove si riuniva una bella congrega di mattacchioni...
Quali sono gli ingredienti fondamentali di un brano che arriva a cogliere di sorpresa la tua curiosità?
Intensità, onestà, urgenza. Spesso ne deriva bellezza.
Quali sono gli elementi peculiari e innovativi del jazz Italiano di oggi e cosa vedi nel futuro di questa musica?
Credo che ci sia in giro tanta, tanta bella musica. Gli orizzonti di tutti si sono allargati e ogni musicista possiede un background tendenzialmente più ampio di quanto sia stato possibile finora. Jazz, come si sa, è un termine ambiguo che può essere (abbastanza) liberamente interpretato. Mi piacerebbe pensare che sia ancora una musica fortemente innovativa, aperta, irriverente, rutilante, riverberante, vertiginosa.
Ancora oggi il jazz è una musica nella quale la componente identitaria del popolo afroamericano si sposa con la ricerca dell'altro da sé in una costante e feconda dialettica.