La Federazione Nazionale Il Jazz Italiano ha intervistato Stefano Zenni, uno dei più noti musicologi in ambito afroamericano. E’ titolare della cattedra di Storia del jazz presso il Conservatorio di Bologna. Da più di 25 anni è il direttore della rassegna MetJazz presso la Fondazione Teatro Metastasio di Prato. Dirige dal 2023 il Torino Jazz Festival, di cui è già stato direttore dal 2013 al 2017. Per questi festival ha realizzato numerose produzioni originali, prime assolute ed esclusive con i più grandi artisti internazionali. E’ autore di libri su Louis Armstrong, Herbie Hancock, Charles Mingus, oltre a I segreti del jazz e la vasta Storia del jazz. Una prospettiva globale (Quodlibet, nuova edizione 2025). Il saggio Che razza di musica. Jazz, blues, soul e le trappole del colore (EDT) ha suscitato un vivace dibattito in ambito musicale. Tiene con successo conferenze divulgative in tutta Italia, tra cui da 10 anni le Lezioni di jazz a presso la Fondazione Musica per Roma. E’ stato a lungo collaboratore di Musica Jazz e del Giornale della Musica. Redige le voci jazz per Dizionario Biografico degli Italiani (Treccani), del Grove Dictionary of Jazz ed è curatore jazz del DEUMM Online. E’ stato candidato ai Grammy Awards come autore delle migliori note di copertina. Collabora da oltre 30 anni con Rai Radio3.
- Qual è stato il momento o l'evento che ha segnato l'inizio della tua passione per la musica? Ci sono artisti o album che l'hanno ispirata particolarmente in quel periodo?
Ho scoperto la musica nella primissima adolescenza. Mia madre era casalinga e teneva sempre la radio accesa. Scoprii i brividi ascoltando Burt Bacharach (tutt'ora uno dei miei compositori preferiti) e poi a alle medie Caikovskij e i notturni di Chopin. Iniziai a studiare pianoforte (mi sono diplomato molto più tardi). Intanto mi ero innamorato del jazz rock, del Perigeo e dei Weather Report: l'album 'Heavy Weather' fu una rivelazione. Passai poi a 'Bitches Brew' di Miles Davis, finché, ancora nell'adolescenza, non scoprii grazie alle radio libere 'A Love Supreme' di Coltrane.
- Come descriveresti l'evoluzione del jazz negli ultimi decenni? Quali cambiamenti sono stati più significativi per il genere?
Il jazz si è profondamente trasformato, come peraltro è sempre accaduto. A mio avviso i cambiamenti più profondi sono avvenuti grazie all'incontro con le culture musicali di mezzo mondo, classiche e non, all'influenza dell' hip hop, alla diffusione dell'elettronica. Questo ha condotto a una trasformazione dei ritmi (ad esempio dello swing), all'introduzione di nuovi strumenti e timbri, alla metamorfosi delle forme. Insomma, il linguaggio si è enormemente allargato, e oggi il jazz si estende dalle sue espressioni più tradizionali a stili completamente nuovi e molteplici, su territori porosi con altri generi. Questo non esclude che si sta un manierismo anche nel jazz contemporaneo, ma quello che sta accadendo è molto eccitante.
- Quali sono le principali responsabilità di un direttore artistico di un festival jazz? Come creare un programma che non solo celebri il linguaggio, ma che promuova anche nuovi talenti e diverse espressioni artistiche?
A mio avviso le responsabilità principali sono tre: tenersi aggiornati, per non trasformare il festival nella vetrina polverosa dei gusti del direttore; promuovere sempre la qualità (che non coincide per forza con la novità), avendo come criterio quello di non vergognarsi di ciò che si presenta, anche se non lo si condivide; architettare il festival come un racconto o meglio, un intreccio di percorsi tra le musiche che accresca la consapevolezza della forza della cultura. Programmare un festival con questi criteri è anche un atto politico (niente di nuovo, lo so, ma non fa male ricordarlo).
I nuovi talenti si promuovono solo con il coraggio: coraggio di metterli nel main stage, coraggio di pagarli quanto chiedono, coraggio di promuoverli alla pari degli altri, senza mandarli allo sbaraglio, beninteso. E le diverse espressioni artistiche si favoriscono non solo seguendo gli artisti, ma anche dialogando con le altre istituzioni: musei, associazioni, cinema, gallerie, o qualsiasi altra istituzione, grande o piccola che sia, con la quale costruire cose insieme: quindi ascoltando e arricchendo la programmazione reciproca attraverso il dialogo.
- Come possiamo incoraggiare la scoperta di musicisti meno noti nel panorama jazz italiano e internazionale?
Questo, lo sappiamo tutti, è un grosso problema. L'abbondanza di offerta e il caos del mercato rendono difficile individuare i talenti migliori. Certo, gli showcase e le reti create dalle associazioni di festival aiutano molto e sono fondamentali, ma a volte i musicisti che emergono sono sostenuti da logiche diverse da quelle puramente artistiche (equilibri di genere, rappresentanza nazionale, selezioni di bandi, legami con istituzioni ecc). Quindi un direttore artistico deve letteralmente mettersi nella disposizione dell'ascolto: ascolto delle proposte ricevute, ascolto dei suggerimenti di colleghi, ascolto del musicista in apparenza più marginale ecc. Ovviamente il tempo a disposizione impedisce di coprire tutto, ma credo che un direttore abbia abbastanza esperienza da comprendere anche a colpo d'occhio cosa sia valido o cosa sia adatto alla propria programmazione e cosa no. Quanto al passaggio sul palco, come detto prima, ci vuole il coraggio, un contesto che consenta di presentare liberamente le proprie proposte e l'incoraggiamento verso il pubblico a scoprire i nuovi musicisti: senza l'ansia del tutto esaurito, nei contesti giusti e soprattutto sulla base della fiducia che un festival costruisce nel tempo con il proprio pubblico. Se il pubblico sa che il festival si impegna anche nella valorizzazione di giovani talenti, con il tempo si fiderà e verrà ad ascoltarli.
- Qual è la tua visione per il futuro del jazz? In che direzione potrebbero andare le nuove generazioni di musicisti?
Non ho una visione del futuro del jazz perché non ho idea - come chiunque altro - di cosa accadrà. Una cosa è certa: il jazz non è più solo statunitense. Noi europei lo sappiamo da tempo, ma cominciano ad accorgersene anche negli Stati Uniti, ora che stanno vivendo una fase di declino culturale. Il jazz è ormai un fenomeno globale e come tale finalmente viene studiato (suggerisco di leggere i lavori più recenti di Bruce Johnson). Ed è una musica che non solo si sta trasformando assorbendo di tutto, ma è anche un sound disponibile per chiunque voglia arricchire il proprio linguaggio, indipendentemente dal genere nel quale crea. Quindi magari un giorno il jazz si dissolverà in qualcos'altro e magari continueremo a chiamarlo jazz, oppure tenderà a inaridirsi, come è accaduto con rock. Se vogliamo capire cosa accadrà, sarà bene ascoltare senza pregiudizi.
- Da storico, musicologo e direttore artistico, quali sono le problematiche urgenti su cui lavorare in Italia per migliorare lo stato delle cose e quali i suggerimenti?
Da musicologo che si occupa di jazz dai tempi in cui questo mestiere in Italia era agli albori, sento la responsabilità di non aver lavorato abbastanza per favorire il ricambio generazionale. Ci sono motivazioni complesse che non è possibile articolare qui, ma ora viviamo un'occasione storica per cambiare le cose: i dottorati nei conservatori, il proliferare di master in management della cultura, le maggiori opportunità di insegnamento per chi si occupa di jazz possono creare le condizioni perché cresca anche in Italia la cultura musicologica e quella della direzione artistica. Non vorrei essere frainteso: non è che bisogna essere musicologi per fare il direttore artistico; voglio invece dire che una cultura jazzistica più consapevole non potrà che migliorare le iniziative in questo settore, dal giornalismo alla gestione di festival, dalla ricerca alla produzione artistica.
- Da più di 10 anni in Italia si è affermato un vitale movimento associazionistico che ha portato alla nascita di molte realtà non ultima la Federazione IJI. Raccontaci la tua percezione di questo movimento e quali potrebbero essere i suggerimenti per migliorarne il percorso.
Ho vissuto le vicissitudini dell'associazionismo jazz in italiano dagli anni Ottanta, sia come osservatore sia come partecipante attivo (in ambito musicologico) e ho visto gli alti e bassi di quelle esperienze, accumulando prima entusiasmo, poi stanchezza. L'affermarsi delle associazioni di settore (musicisti, festival ecc) e più tardi la nascita della federazione sono tra le novità più stupefacenti della nostra storia musicale recente. Una vera conquista, che non va dissipata - a dispetto di divergenze e divisioni - e anzi va fatta crescere. Io stesso mi ci sono avvicinato tardi, vuoi per lo scetticismo accumulato negli anni, vuoi perché fino ad alcuni anni fa avevo sempre vissuto la mia attività di direttore artistico come un bellissimo 'di più' della mia vita.
Come crescere allora? Premesso che mio sento più a mio agio davanti a una classe di studenti che a un bando, direi anzitutto: parlandoci molto di più tra noi, il che non vuol dire cercare per forza un'armonia inesistente, ma significa essere consapevoli delle esigenze di tutti e trovare strade che rafforzino la collaborazione senza indebolire la sacrosanta autonomia di ognuno. Sul piano normativo, perfezionare se non superare il meccanismo dei bandi, fondamentali per la crescita del settore, ma che forse alla lunga distorcono la percezione della realtà creativa; rafforzare il dialogo con le associazioni e le istituzioni europee, sia perché esistono ancora difformità normative nell'UE che rendono faticoso il lavoro degli operatori, sia perché i musicisti italiani non vedono ancora abbastanza riconosciuta la loro originalità creativa nel resto d'Europa.
Nel frattempo dovremo affrontare la diminuzione delle risorse imposta dallo sciagurato patto di stabilità: in Europa ne saranno danneggiati quasi tutti, anche quelli che contavano sulla 'frugalità'. E dovremo rintuzzare un'ondata da destra manipolatrice e anti culturale. Una 'bella' prospettiva che ci impone di lavorare più creativamente tutti insieme.