Sono le colonne portanti delle nostre associazioni, collaboratrici e collaboratori storici appassionati che spesso lavorano in seconda linea. Questo nuovo ciclo di interviste intende farne conoscere competenze e qualità, oltre ad approfondire le attività che svolgono.
Conosciamo Giulia Focardi.
- Quando e come hai scoperto il Jazz e come lo definiresti?
Credo di aver scoperto il jazz da bambina, ascoltando alcuni dischi di mia mamma. Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia che ha sempre ascoltato tanta musica, guardato tanto cinema, gli stimoli non sono mai mancati. Il primo ascolto è stato con alcuni brani di Ellington, credo mi affascinasse il ritmo e una sorta di gioia interiore che non riuscivo certamente a definire nel migliore dei modi. Per fortuna quando si è bambini si sentono le cose senza darci troppe spiegazioni. Immagino che sia stata quella sensazione a riaccendersi quando, nel 2012, ho capito che sarebbe stata la mia direzione. Ero a Umbria Jazz al Teatro Morlacchi; è una sensazione che non dimentico.
Difficile dire come lo definirei, certamente, a distanza di questi anni, una scelta di vita, un modo di sentire il mondo e i suoi ritmi, una cultura e una famiglia in alcuni casi.
- Di cosa ti occupi nella/e realtà con cui collabori?
Il mio lavoro principale è con l'Associazione I-Jazz, associazione che attualmente rappresenta circa 80 tra festival e rassegne di jazz in Italia. Ho iniziato lavorando per la comunicazione della manifestazione 'Il jazz italiano per L'Aquila', diventata dal 2017 'Il jazz italiano per le terre del sisma' - ruolo che svolgo tutt'ora - ma dal 2018 sono diventata project manager dell'associazione e segreteria generale.
Poi ho altre collaborazioni tra cui il coordinamento della comunicazione per Il jazz italiano per le terre del sisma, organizzato da Jazz all'Aquila insieme alla Federazione Nazionale, e quella con Music Pool per il Grey Cat Festival, la rassegna diretta da Stefano Cocco Cantini che porta il jazz in gran parte della Maremma, a partire da fine luglio.
- Come si potrebbero avvicinare i più giovani e un pubblico diverso al Jazz?
È una domanda importante. Certamente portando il jazz, come ascolto e pratica, già nelle scuole dell'infanzia, o coinvolgendo di più i ragazzi anche nell'organizzazione e la gestione di alcuni settori dei festival - alcuni dei nostri associati lo fanno - per provare a stimolare in loro anche una maggiore curiosità e una coscienza sociale e culturale collettiva. Credo che provare a interpretare e incrociare le loro necessità, in termini di gusti musicali, e i nuovi linguaggi (anche social) dovrebbe essere uno dei nostri obiettivi e dovremmo provare a capire realmente come integrare questi aspetti. Non è facile, è chiaro che le cose stanno cambiando e la soluzione non la possiamo trovare in poco tempo. Stare in ascolto, però, è la prima azione necessario, e parlo di un ascolto reciproco, un ascolto di comprensione e inclusione.
- Dalla tua prospettiva quali sono i punti di forza e quali i punti di debolezza del sistema del jazz?
Prima di tutto lavorare in rete, anche se spesso può sembrare tanto faticoso, alla lunga genera maggiori benefici per tutto il settore ed è uno dei punti di forza del nostro mondo. Il lavoro svolto dalla Federazione e anche da I-Jazz, per alcune importanti istanze portate poi all'attenzione del Ministero della Cultura, ne sono la conferma. Se c'è una cosa che ho imparato in questi anni è che tentare di comprendere ciò che ci sta intorno, anche in termini culturali, è necessario: il dialogo tra le varie componenti di questo settore è la prima cosa da mantenere e che a volte viene a mancare, mi dispiace infatti se qualcuno, spesso, non lo capisce. Non sono convinta che l'individualismo paghi.
Va rafforzata, da una parte, la rappresentatività del nostro settore a livello nazionale - siamo di fronte a un momento di passaggio politico importante e delicato - e dall'altra la capacità di chi lavora di permeare altre linee di intervento e di sostegno, essere più forti e presenti su bandi nazionali ed europei, crescere sicuramente in termini di professionalità e progettualità; basta iniziare, non ci manca niente (forse il tempo a volte).
- Hai collaborato (o tutt’ora collabori) con altri settori culturali? Cosa consiglieresti di importare in quello jazzistico?
Un ragionamento più profondo sul concetto di welfare culturale, come una visione a 360 gradi in cui gli operatori del nostro settore possono sentirsi soggetti integrati. Il jazz, così come quasi tutto lo spettacolo dal vivo, soprattutto nelle realtà piccole, dovrebbe essere portatore di un benessere collettivo a lungo termine, strutturato, legato al contesto e al territorio di riferimento; l'offerta culturale pensata come una crescita, una rinascita anche per certi versi. Ma per farlo ci vuole la stessa visione a lungo termine anche nei soggetti politici, nei sostenitori; non sempre è facile quindi.
- Come ti immagini il Jazz del futuro?
Più aperto alle nuove generazioni, non solo in termini artistici, ma anche per chi organizza e vuole portare avanti festival, rassegne, contenuti culturali. E spero più al femminile!